Giorni addietro nella marmorea villa romana del compositore e commediografo Maurizio Sandoz non fu tanto la mia sorpresa quando a un certo punto egli trasse da un astuccio di cuoio rosa lo specchio famoso, che oramai passa nel linguaggio degli amatori come un dono di Napoleone a Maria Walewska, ma quando mi venne indicato a una parete il ritratto di Giacomo Casanova dipinto da suo fratello Giovanni, l’allievo di Mengs. Non feci caso alle gemme che adornavano lo specchio a mano, nè alle miniature dei laghi svizzeri sul manico, nè a quella del Bosforo sul retro, nè al serto di rose d’oro sul vertice, la maggiore delle quali a una lieve pressione si schiudeva per fare uscire un minuscolo uccelletto fremente nelle ali smaltate di azzurro, mentre iniziava un canto squillante.
Casanova dal suo ritratto riusciva a fare passare tutto in secondo ordine, come doveva avvenire quando da vivo entrava in un salotto vestito di velluto, al massimo della sua eleganza, con calzoni viola, soprabito grigio cenere, maniche di merletto inglese, un anello con diamante a ogni dito, nei taschini del panciotto due tabacchiere d’oro scolpite e due orologi con le miniature delle sue donne preferite.
Nel ritratto rivelava due elementi che fino allora non gli sapevo particolari: gli occhi cerulei, come si vedono ancora spesso in Venezia, e il bianco, quasi rosato del suo volto, mentre da altre testimonianze sembrava fosse bruno come un saraceno. Indubbiamente egli doveva essersi incipriato, ma il naso grande e ricurvo, che risultava tale anche se visto di fronte riconfermava che quello era un suo ritratto autentico.
Qualcosa di mansueto e di cortese appariva da questo ritratto controbattendo quello che mi ero fatto da me di lui, come di un uomo col quale sarebbe stato assai difficile andare d’accordo se si fosse vissuti nella stessa epoca.
Volendolo paragonare a qualcuno, per il suo temperamento, mi era avvenuto spesso di citare lo scultore Arturo Martini, per entrambi l’arroganza infrenabile, li privava di ogni sopportazione da parte del prossimo e impediva il sorgere di vere amicizie. Era stata mia esperienza con Arturo Martini quanto faticoso conservargli l’amicizia, e non solo per me; ogni volta che egli la metteva alla prova colle sue sconcertanti prepotenze mentali dovevo creare tra me e lui un isolamento generoso per perdonargliele.
L’indisponenza di Casanova, fu la causa della sua solitudine nel declinare della vita, ma avvicinato a centinaia di anni di distanza, attraverso le sue Memorie, togliendo la morte e il tempo le asperità di una convivenza attuale, fu possibile il sorgere delle sue innumerevoli amicizie.
Fino dalla mia prima giovinezza sono uno dei suoi più schietti amici, un suo lettore attentissimo, anzi potrei dire che ogni rilettura delle sue Memorie costituisce per me una stagione speciale come determinata da un ambiente spiccatamente climatico, dove mi sia deciso ad abitare. Ne subisco l’influenza per così dire fino nel sangue, mi si crea per giorni interi una disposizione particolare, non si creda erotica, come i semplici potrebbero pensare, ma invece malinconica, perchè pochi scritti come questi riescono a dare il senso di una vita limitata al tempo destinatole. Quella malinconia che Mozart ha intessuto nella sua musica per il Don Giovanni e che in fondo è la vera tonalità dei sensuali. Ho letto quelle Memorie quattro volte, nella prima giovinezza, per ognuna di queste guerre europee e, ora, tra l’autunno e l’inverno. Sempre queste letture sono state fatte sull’edizione di Bruxelles del 1863 che scopersi un giorno nella piccola biblioteca di famiglia.
Mi aveva preso subito un forte interesse quando mi accorsi dall’indice, che un conte Edoardo Tiretta di Treviso, mio avo di linea materna, aveva partecipato alla vita di Casanova. Andai da mia nonna, che era una Tiretta ed era nata nel 1824 e le chiesi se nulla ricordava di questo avo. Casanova ci dice che dopo le avventure di Parigi, che gli avevano attribuito il nomignolo di Comte de Sixfois, si era trasferito ad Amsterdam dove si era imbarcato per le Indie. Mia nonna ricordava nella sua infanzia una sua parente, chiamata: l’indiana, che andava per Treviso vestita di verde e doveva essere la figlia dell’Edoardo casanoviano. Più tardi certi missionari si rivolsero a me se potevo offrire notizie di questo Tiretta che stabilitosi a Chandenagor e arricchitosi, aveva regalato, pur essendo massone, un suo terreno alla colonia europea, perchè vi seppellissero i morti con rito religioso e sembra che ancora oggi, quel cimitero si chiami: Cimitero Tiretta. A quei missionari risultava che si era sposato con una francese, dalla quale aveva avuto una figlia e che in vecchiaia, morta la moglie, aveva fatto ritorno a Treviso.
Le mie letture, fino dalla prima volta, si sono dunque orientate verso un piano storico, che non ho mai tradito. Ma vi è una specie di fatalità a non staccarmi da queste Memorie, lasciato di abitare Treviso sono venuto a cascare proprio nel vicino paese di Zero, dove si svolse una delle più drammatiche avventure di Casanova, che nella sua giovinezza lo costrinse a fuggire da Venezia a Parigi. Si trattava del disotterramento di un morto, con amputazione di un braccio, e di avere fatto impazzire dalla paura con quel braccio, un bottegaio di Zero che per gelosia aveva segato le tavole di un ponticello sul quale Casanova passava sempre per primo per dare la mano alle sue amiche di villeggiatura. Casanova era precipitato nelle acque melmose del fiume, che appunto si chiama Zero, e individuato l’autore dell’acre scherzo ne aveva meditato per vendetta, l’altro più acre. Mi era stato facile stabilire quale era la casa dove egli aveva abitato e quale il ponticello, ma vana fu la ricerca della relazione del parroco agli Inquisitori di Stato dell’atto sacrilego.
Altra volta facendo mie inconsuete ricerche all’Archivio di Venezia nei grossi fascicoli degli agenti segreti, senza che lo aspettassi, mi vennero fuori, prima che lo fosse toccato ad altri, tutte le denunzie della spia Manuzzi contro Casanova, che si conclusero col suo arresto e la reclusione sotto ai Piombi. Così pure trovai tutte le denunzie che lo stesso Casanova fece, tra il 1774 e il 1782, adattandosi per vivere a questo umiliante servizio. Ricordo quanto risi, nella grigia aria di quell’Archivio, quando sul rovescio della prima lettera di Casanova implorante gli Inquisitori, sebbene sostenuta da un inizio filosofico («La natura umana, che tende alla conservazione di sé medesima, non ha furore per le cose, che intraprende, che allor quando spera di ricavar da quelle il suo sostenimento»), il segretario vi scrisse: — A migliori e a più conseguenti notizie. — In questa frase vi è condensata tutta la taccagna e prudenziale imbecillità dei veneziani quando arrivano a un posto elevato qualsiasi.
Colla distruzione della mia casa e della mia libreria durante la guerra, avrei potuto staccarmi per sempre da quelle Memorie e invece tra le macerie, appena mosse alcune pietre, quelle mi ritornarono intatte e subito feci la terza consolante lettura.
Se ho trovato il tempo di leggere, purtroppo non ho mai trovato quello di potere fare certi gustosissimi lavori che da amico postumo di Casanova, sarebbe quasi un dovere. Viviamo in tempi difficili in cui non è possibile intraprendere lavori che possono risultare oziosi. A ogni modo se qualcuno potesse avere il tempo e la buona volontà, elenco quanto avrei voluto fare io stesso.
Prima di tutto avrei fatto una traduzione italiana delle Memorie, per ridare alla nostra letteratura un’opera che le appartiene. In quest’opera tutto è narrativamente di una fresca bellezza che può farla stare alla pari con l’autobiografia di Cellini e con l’autodifesa di Lorenzino de’ Medici. Al confronto, le memorie di Goldoni sono fiacche e svampite. In quelle di Casanova vi si può trovare il germe di tutto il giornalismo moderno. Testimonianze delle classi sociali del Settecento, di persone celebri e sconosciute, di città, di corti, di alberghi, di teatri, di locali equivoci, di bische, del modo di viaggiare, di mangiare, di vestire in Europa ci sono date nel modo più attraente. I dialoghi riferiti sono sempre spigliatissimi e sorprendenti da rivelare in Casanova un commediografo incurante di esserlo. Solo punto debole, stranissimo a crederlo, sono i ritratti delle donne amate, i quali risultano sempre impacciati, impastoiati, impiastricciati di alabastro e di ebano, da una tale stupidità descrittiva del corpo desiderato, si capisce bene come la malvagia sensualità che lo dominava, finiva con l’accecarlo e col fargli lo sgambetto. Si sa che questa sua sensualità era tale da farlo uscire in vero di senno, se a un appuntamento notturno, per quanto al buio completo, non gli riesce di discernere di avere tra le braccia una vecchia zoppa e che le puzzava il fiato, invece di una bellissima e giovane sposa.
Dopo la traduzione avrei voluto fare una scelta di tutti i ritratti di persone incontrate nel suo girare per l’Europa. Ve ne sono di stupendi come questo: «Amabile sebbene decrepito, il cavaliere d’Arzigny aveva una dolcezza di carattere che dava a tutto quello che diceva la vernice della verità che, nel suo mestiere di cortigiano, non aveva forse mai conosciuto. Era di una raffinatezza estrema. La sua bottoniera era sempre ornata di un mazzetto di fiori i più odorosi, come tuberose, giunchiglie e gelsomini di Spagna, inoltre i suoi capelli posticci erano spalmati di pomata all’ambra, le sue sopracciglie tinte e profumate e la sua dentiera d’avorio». Assieme ai ritratti avrei scelto una serie di descrizioni di città, di paesaggi e di ambienti sempre felicissimi ed essenziali come se avesse avuto per maestro Guardi o Longhi.
E come finale una buona raccolta di sue sentenze, giudizi, opinioni e battute filosofiche. Come codicillo a questo libro mi sarei divertito fare un calcolo certosino di quanto denaro ha speso, perduto o guadagnato al giuoco, quanto particolarmente dato alle sue donne amate, quante sono state queste donne, quante sono state le partite amorose, sempre secondo le sue testimonianze.
La sfortuna di Casanova è stata di passare per uno scrittore pornografico e curiosamente starei proprio per dire che la sua fortuna sarebbe ristabilita, come scrittore, se proprio si facesse un’edizione sapientemente purgata delle parti più erotiche. Ma chi sarebbe capace di fare una tale purgazione senza rompere quei legami indispensabili perchè queste memorie di Casanova, siano le sue memorie? Quella che può ritenersi pornografia in Casanova è data da un suo vedere in determinati punti con una specie di lente di ingrandimento e in una situazione ferma. E ancora, in determinati momenti amatori, usare certe frasi, in vero banali, sempre ripetute uguali e che con un colpo netto di forbice potrebbero essere tolte senza lasciare cicatrice. Eccone alcune: «Après plus d’un assaut livré et soutenue avec ardeur», oppure, «J’immolai la victime sans ensanglanter l’autel», oppure: «Nous nous remimes sur l’autel de l’Amour». «L’autel fut purifiè du sang des victimes». «Quand je sortis du sanctuaire», e altre del genere. Insomma una purgazione gli farebbe bene, perchè le narrazioni erotiche, come i ritratti delle donne amate, sono esattamente le parti più artisticamente deficienti della sua opera.
Ma se avessi tempo e adepti esperti del teatro, proprio dalla rilettura recente delle Memorie, mi è venuto di pensare a una specie di grande parata casanoviana con una ventina di scene legate soltanto dal procedere della vita di questo libertino dominante, fortunata, superante tutti gli ostacoli fino a un certo punto e poi declinante, sfortunata, perseguitata e tristemente nostalgica. A sfondo di questa vita avrei messo tutto il grande coro settecentesco composto di nobili ancora sfarzosi, mentre altri sono già decaduti, di avventurieri, di alchimisti, di maitresses, di gente di teatro, di biscazzieri, di gesuiti, di diplomatici, di ruffiani, di gente umiliata e offesa che preannuncia la rivoluzione. Una grande parata della vita di questo libertino del Settecento col coro del suo secolo, una specie di simbolico balletto.
Giovanni Comisso
Pubblicato nella rivista Il Mondo il 9 febbraio 1954
Si ringrazia la Biblioteca Nazionale Centrale di Roma e il portale della Biblioteca Digitale.
Immagine in evidenza: Presunto ritratto di Giacomo Casanova, attribuito a Francesco Narici, e in passato ad Anton Raphael Mengs o al suo allievo Giovanni Battista Casanova (fratello di Giacomo), fonte: Wikipedia