Matteo Cavezzali è il vincitore della XXXVIII edizione del Premio letterario Giovanni Comisso, sezione narrativa. Il suo Icarus. Ascesa e caduta di Raul Gardini è un testo potente, sospeso tra romanzo, inchiesta e saggio.
Impossibile non apprezzarne il linguaggio limpido, l’attento lavoro di ricostruzione, la sapiente capacità di bilanciare pubblico e privato. Ora è uscito per Mondadori la seconda opera di Cavezzali, Nero d’inferno. Un’altra storia vera, suggestiva e misteriosa. Riguarda Mario Buda, l’anarchico italiano che il 16 settembre 1920 fece saltare in aria Wall Street, in un attentato che il New York Times definì «act of war», atto di guerra.
Nell’America della “paura rossa” il gesto dell’anarchico Buda è una ferita lacerante: l’FBI non riuscirà mai a rintracciarlo, lui disconoscerà sempre la paternità del gesto.
Nel rievocare la sua storia Cavezzali mette insieme documenti e suggestioni, e conferma – ancora una volta – il suo talento di scrittore.
Potenzialmente leggendario, eppure dimenticato. Mario Buda è un mistero lungo anni. Cos’è l’ha reso un “fantasma” della memoria?
È una domanda che mi sono posto anch’io. A volte le storie hanno bisogno di qualcuno che le racconti, qualcuno che ha interesse a riportare alla luce quella vicenda. Noi conosciamo la storia di due anarchici del gruppo di Buda, Sacco e Vanzetti, i quali negli anni Settanta sono diventati quasi due martiri della sinistra antagonista. In realtà, dalla storia di Buda escono tutti male, sia gli anarchici che gli italiani in genere, che rientrano nel clichépre-confezionato dall’America del tempo.
C’è da considerare poi che l’FBI non riuscì mai ad arrestare Mika Boda, pertanto per gli statunitensi questa vicenda rappresenta quasi una vergogna. Con ogni probabilità è qui che risiede il motivo per cui tutti hanno evitato di confrontarsi con la sua figura, quasi si trattasse di un fantasma in grado di costringerci a fare i conti con lenostre idee e costruzioni mentali.
Il suo è un romanzo urticante, disseminato di tracce che legano un passato sgradevole a un presente impervio. Ricordando la concezione del tempo degli antichi greci, lei afferma che «l’uomo è sempre lo stesso. Nella vita possiamo ripetere lo stesso errore infinite volte». Ecco dunque il pregiudizio, la paura dell’altro, il terrorismo islamico non più così isolato… È forse questo a disturbare di più le coscienze?
Sicuramente sì, perché spesso la realtà viene appiattita a una sola dimensione in modo da apparire più addomesticabile, più semplice da trattare. Essa, invece, è sempre più complicata e tutte le storie presentano sfaccettature che, viste da vicino, rendono ardua la formulazione di un giudizio netto. Si tratta di un aspetto difficile da accettare oggi, giacché viviamo in un’epoca in cui ciascuno è chiamato ad avere un’opinione definita su tutto ciò che lo circonda.
La letteratura ha anche il ruolo di ribaltare questa tendenza pericolosa, mostrando storie che si compongono di molteplici fattori spesso in contraddizione tra loro.
In Nero d’inferno da una parte ci sono gli italiani che avevano il desiderio di sacrificarsi per la felicità dei loro cari, dall’altra quelli che partivano per fuggire, come è il caso di The Wolf che lasciò l’Italia perché condannato al carcere. Altri ancora raggiunsero l’America con una speranza che s’infranse nell’impatto con una realtà difficile e del tutto altra rispetto a quella che avevano immaginato. Buda ne è l’esempio; partito per trovare un posto nella società, quando capisce che ciò non è possibile passa alla rivolta violenta.
Il discorso sull’emigrazione porta sempre con sé una carica di problematicità. Oggi che è diventato un tema politico rilevante, la polarizzazione tra favorevoli e contrari rischia di ridurre la complessità del problema impedendo così una riflessione seria e reale.
La narrazione corale dona al testo un carattere di ricerca storico-esistenziale. Ogni frammento, ciascuna verità riportata, restituisce al lettore uno sguardo diverso sulla vicenda e sull’uomo Buda. Com’è stato immergersi in questo magma di testimonianze?
L’idea era quella di mostrare come le cose possono mutare a seconda dello sguardo che si appunta su di esse. Volevo riportare sulla pagina una sorta di tridimensionalità, restituire le prospettive con cui diversi individui guardano il mondo e, a volte, la stessa scena. È chiaro che, se si è un operaio italiano in America, lo sguardo sulla realtà di fabbrica sarà diverso da quello di un responsabile originario del posto. Lo stesso per quanto riguarda un anarchico e un poliziotto, un informatore o un giornalista. Immergermi in tali sguardi è stata la vera sfida di questo romanzo.
Attenzione al contesto e demistificazione della vulgata tradizionale: nel suo testo il terrorista non è un folle né un criminale tendenzialmente isolato. È stato difficile operare uno scarto rispetto alla caratterizzazione (auto)assolutoria della follia del singolo? Qualcuno ha storto il naso dinnanzi a tale scelta?
Definire gli atti terroristici come frutto di follia è senz’altro una forma di autoassoluzione da parte della società, poiché credere di avere a che fare con individui instabili è più rassicurante di dover fare i conti con il clima in cui certe azioni giungono a compimento. In realtà, la dinamica non è mai così semplice e il ragionamento di queste persone è sempre molto lucido. A volte non è facile capire chi è un terrorista e chi invece porta avanti forme di resistenza. In Italia abbiamo molte strade dedicate a eroi del Risorgimento che potrebbero essere considerati terroristi: pensiamo a Felice Orsini, responsabile dell’attentato a Napoleone III e inventore degli ordigni poi passati alla storia come “Bombe all’Orsini”.
Anche Mazzini teorizzava nei suoi testi la violenza armata come lotta. In che modo si traccia il confine tra l’una e l’altra condizione? Probabilmente chi vince, come sempre, determina l’utilizzo dei termini e la direzione della storia.
Se le idee di Mazzini fossero state sconfitte probabilmente anche lui, oggi, sarebbe ricordato in maniera diversa. Quando si cerca di far capire che certi eventi non accadono senza ragione ma hanno radici in un preciso contesto politico-sociale spesso ci si scontra con atteggiamenti di chiusura. Tuttavia alcuni fenomeni non possono essere trattati come corpi estranei e, nella storia del gruppo anarchico di Buda, vi sono stati momenti in cui la società americana avrebbe potuto e dovuto evitare di decontestualizzare le azioni. È una tendenza che si è perpetuata negli anni e che, con ogni probabilità, tornerà a presentarsi in forme non dissimili. Per fare i conti con la storia è però necessario rimettersi davvero in discussione.
Nero d’inferno. Recensione di Ginevra Amadio
Curioso meccanismo quello della memoria, serbatoio di eventi e ricordi avvolti da una patina di mai neutra opacità. C’è sempre una ragione inespressa dietro i silenzi epocali e gli oblii della storia. Chissà quale ferita ha scavato Mario Buda per essere rimosso dai sentieri pubblici e privati della rimembranza collettiva. Tracce del suo passaggio – di una vicenda trascorsa tra Italia e USA, Messico, Francia e ancora Italia – si trovano disseminate in archivi e stringati ritagli di giornale, mentre in rete compaiono scritti che attingono sempre, con grande rigore metodologico, alle medesime, esigue fonti. Non che sia impossibile farsi un’idea del personaggio attraverso testi che ne restituiscono un ritratto il più possibile oggettivo, coerentemente in linea con le esigenze di una ricerca che si fa divulgazione nel momento in cui lavora sul rimosso. Il fatto è che Buda costituisce un enigma quasi esistenziale, una figura il cui oblio si carica di valenze simboliche e diviene interrogativo pressante sulle ragioni di un’epoca.
Il silenzio in-volontario è spesso sintomo di lacerazioni mai sanate, buchi memoriali sviluppati per un meccanismo di difesa contro eventi destabilizzanti. Indagarne le radici è un’operazione perigliosa perché necessariamente in bilico tra dati e interpretazione, e non è un caso che a sobbarcarsi quest’onere sia stato uno scrittore già avvezzo all’analisi di personaggi controversi. Matteo Cavezzali, vincitore nella sezione narrativa del Premio Comisso con Icarus. Ascesa e cadutadi Raul Gardini, realizza conNero d’inferno (Mondadori, 2019) un lavoro di scandaglio critico e interiore, che dalla figura di Buda si estende al contesto di un’epoca segnata da disparità e contraddizioni troppo complesse per essere ridotte a resoconto.
Il testo, disseminato di documenti e testimonianze rielaborate, è sì un romanzo storico ma è anche e soprattutto la messa in atto del potere conoscitivo della letteratura.
Prescindendo da rigidità di genere, l’autore sfrutta le potenzialità del mezzo e costruisce una narrazione corale che consente al lettore di penetrare nelle pieghe profonde della materia, indagando – fin dove è possibile – le ragioni più urgenti della sua riscoperta. Cavezzali non fa mistero di essersi imbattuto in Buda grazie a un riferimento comparso in un articolo di giornale. Uno storico statunitense, parlando dell’attentato a Berlino del 2016, utilizzava senza spiegazioni il termine Boda’s Bomb, la bomba di Boda.
Il suo lavoro d’indagine parte allora da un interesse personale e si rivela efficace proprio perché sincero, intimamente connesso all’esigenza di capire.
Lontano da pretese assolutorie e toni didascalici, l’autore predilige il dubbio alle certezze e si getta consapevolmente alle spalle la vana tendenza alla divisione manichea tra buoni e cattivi, vittime e carnefici.
La storia di Mario Buda è quella di un italiano giunto in America per avere futuro, stretto tra le maglie di una miseria economica e affettiva che rivela il volto avido del paese che lo “accoglie”. Accanto a lui, nei sottoscala e alla catena di montaggio, si muove un’umanità multiforme che subisce e attacca, stanca di vivere in una perenne quarantena che è poi stato di sospensione tra la vita e la morte.
I passaggi più intensi, dolorosi senza che il sentimento tracimi dalla pagina, riguardano le condizioni degli emigrati all’inizio del Novecento, quel loro sfruttamento condito da sadismo, le diffidenze incelate, i pregiudizi lombrosiani.
La bravura di Cavezzali, tuttavia, sta proprio nel non indulgere nei cliché nostalgici, narrazioni ex post che nel gioco di richiami del testo rivelano persino un’inconsapevole ipocrisia, interessate come sono a marcare la differenza tra un passato di onestà e un presente (quello delle migrazioni odierne) di protervia e ozio. La volontà di ancorare la narrazione al contesto risponde a un’esigenza di rigore storico che non abbandona mai l’operazione letteraria di scandaglio interiore, portata avanti mediante un’alternanza di sguardi che si moltiplicano sino a perdersi in un gioco di contraddizioni e interrogativi costanti.
Gli scioperi e gli scontri sociali, gli insegnamenti di Galleani, le bombe del 2 giugno 1919, Sacco e Vanzetti, l’esplosione di Wall Street del 1920; Mario Buda attraversa questi eventi e il suo vissuto è raccontato per mezzo di verità che si configurano come frammenti di uno specchio, ciascuno deputato a restituire un’immagine diversa e perennemente incompleta. Ciò che colpisce è la mancanza di un confine netto entro cui delimitare la sua azione, da un lato grano apocrifo insinuatosi in un movimento nobile, dall’altro manifestazione concreta di una predicazione violenta. In tal senso, Buda illumina di una luce altra la storia del suo tempo e del suo credo, rimettendo in discussione quei principi di solidità morale auto-costruiti e le indomite certezze sclerotizzatesi negli anni. «Cosa distingue un rivoluzionario da un assassino? È solo il successo e il fallimento della sua impresa?» si chiede Cavezzali in apertura di testo. Certo è che una simile prospettiva sconvolge, risveglia dal torpore, forse – persino – rischiara il nero dell’inferno.
Mario Buda è una zona d’ombra, un blackout memoriale che rivela l’incapacità di fare i conti con certi aspetti della storia. La letteratura non ha il compito di dirimere il passato, ma rappresenta senz’altro una porta d’accesso al nostro inconscio politico: Cavezzali lo sa, e ci ha costruito un romanzo di indiscutibile valore.