Nikko, maggio.
Vi è un certo momento dell’anno in cui il Giapponese colto come da un profondo e obliato senso poetico abbandona per alcuni giorni la vita di ufficio e si dà a quella errante. Si ebbe notizia di questa graziosa abitudine di ritornare alla natura e di misurare la resistenza del proprio passo, una sera, da alcuni giovani poeti giapponesi coi quali avevamo cenato sulla riva del fiume Sumida, nella piccola trattoria della « Nube piovosa », dedicata appunto alla vita errante. Sulla porta d’ingresso stavano appesi un largo cappello di paglia a cono e un nodoso bastone: simboli del pellegrino. La mattina dopo, preso il treno, s’andò a Nikko, paese montano distante quattro ore da Tokio.
Entro ad alte foreste di pini stanno gran numero di templi rossi e neri di lacca e la tomba del grande principe Tokugawa: Iyeyasu il fondatore della potenza di questa famiglia. Tra i tanti templi del Giappone questi differiscono per i loro vivi colori lucidi e freschi tra le ombre degli alberi. Vi sono verande e ballatoi laccati persino nel pavimento, a volte attraversati da preti calzati di seta con ampi kimono bianchi e verdi e un alto cappello nero.
Nella «vera natura»
Di qui si ripartì col desiderio d’abbandonare ogni opera degli uomini e penetrare nella vera natura come per ritrovare noi stessi. Comperato un saldo bastone si salì su d’un autobus che portava al lago di Chuzenji. La strada correva lungo un torrente tra montagne che si facevano sempre più elevate. I compagni di viaggio erano gente povera e gente benestante, vecchi e bambini. La bigliettaia, una ragazza forte e massiccia, rossa in volto e vestita alla marinara. Costei durante tutto il viaggio con una voce canterina si preoccupava di dare a ogni istante spiegazioni sul paesaggio e tutti l’ascoltavano a bocca aperta sottolineando ogni frase con un «Ah! Ah!», che corrisponderebbe al nostro «Ah; così!» Presa dalla foga ciceroniana a una (fermata si lasciò scappare una donna senza che le avesse pagato il biglietto; fece fermare l’autobus e messasi a correre come una capra bizzarra la raggiunse e ritornò trafelata e rosseggiante.
A Umagaeshi si lasciò l’autobus per un’automobile più leggera dovendo la strada arrampicarsi a considerevole altezza, tra svolte su precipizi. La strada era qualcosa di minaccioso e di costruito fuori dalle regole della viabilità.
Più d’una volta le curve erano talmente acute da obbligare la macchina a parecchi avanti e indietro e gli indietro venivano eseguiti rasentando precipizi di centinaia di metri, senza alcuna difesa.
Con tutto questo lo «chauffeur» si affannava di dare spiegazioni ai passeggeri in giapponese e in inglese su certe miniere che si vedevano in fondo valle e su una grande cascata che biancheggiava tra l’ombra d’un alto monte tutto meravigliosamente fiorito di peschi selvatici tra sterpi d’altri alberi.
S’arrivò alla cascata di Kegon, la macabra cascata che accolse innumerevoli giovani vite di studenti avviliti e di romantici esasperati. La grande cascata precipita come in un immenso cratere e non si sente il rombo delle sue acque tanto esse si disperdono in spuma. Da questo punto incominciò la vera marcia. Dopo non molto si dischiuse il panorama del lago di Chuzenji, come al solito più bello nelle fotografie che nella realtà. Lungo la riva v’erano alberghi e trattorie tutti in legno a uno o due piani coi ballatoi attorno come le case del nostro Cadore. Passando davanti, camerieri in kimono o gheishe dalle alte chiome lucenti invitavano a entrare.
Le gheishe di montagna
S’avvicinava la sera e si decise di pernottare in uno di questi alberghi un po’ discosto dagli altri. Sull’atrio ci accolsero grandi inchini di tutto il personale, mentre un facchino subito si precipitava a toglierci le scarpe.
Due gheishe di montagna, dalle braccia grosse e dai volti gonfi come zucche, ci invitarono a salire a una piccola stanza con le finestre aperte sul lago.
Su d’un lato c’era la solita massima: «Bontà e intelligenza rendono l’uomo perfetto». Per farsi capire si ricorse al sistema del disegno : un pesce, due uova, un pollo, riso! Ridevano a ogni disegno e si parlavano con vivezza tra loro, pareva si dicessero: « Questo barbaro l’ha trovata bella per farsi capire.»
Una scese per far preparare la roba, l’altra rimase assisa in disparte occupandosi di tanto in tanto a versare il tè nella tazzina. Nel tokonoma stava appesa una piccola striscia dove si vedeva un vecchio poeta in contemplazione d’una cascata, sotto stava una scatola di lacca legata da un cordone di seta. Ritornò l’altra con le vivande, entrambe presero a distribuirle sul piccolo desco di lacca. Veniva dal lago un vento dolce, si mangiava con le asticciuole di legno nel modo più disordinato condendo il riso con un po’ di tutto. Ora l’una, ora l’altra ci versava il sakè in una tazzina minuscola rivolgendo l’invito a bere con l’identico tono di artefatta cortesia che hanno le parigine.
Tuttavia queste donne hanno il dono di non ingombrare, la stanza stessa è così traforata dalla natura che riposa e conforta. E’ un’impressione di aereo e di leggerezza che prende come si stesse appollaiati sugli alberi.
Pertanto dall’entrata che dava sul ballatoio apparve sorridente un’altra gheisha, meno montanara ed europeizzata nella capigliatura. Era una delle belle del villaggio che veniva a farsi vedere dal forestiero. Le lunghe maniche del kimono le servivano come ripostiglio d’una infinità di cose necessarie alla sua toilette : cartine di cipria, rossetto, specchietto, pettinino e un blocco di carta leggera della quale si serviva come fazzoletto. Sapeva alcune frasi in inglese per rendersi gradita. A un certo momento disse: «Sarebbe stato meglio che non ci fossimo mai incontrati.»
Poi ancora, avendole indicato le fossette che le si formavano sulle guance come sorrideva, disse che ne avrebbe voluto fare un dono all’onorabile forestiero.
Le altre due, quali gheishe appartenenti a un ordine inferiore, se ne stavano in disparte; una ramassava i piattini di lacca, l’altra versava l’acqua nella teiera sul braciere. Poi chiusero le finestre, portarono alcuni cuscini e ci lasciarono soli.
Alla sera prese a piovere, per la strada si vedevano passare grandi ombrelli di carta cerata, e fu piacevole rimanere nella semplice stanza dalle pareti di legno e dal pavimento coperto di stuoie. Un servo entrò per portare il braciere per la teiera, e poi indugiò nell’uscire come avesse qualcosa da domandare, infine, fattosi coraggio, toccandosi con una mano il polso, accennò che aveva la febbre e voleva qualcosa per guarire. Doveva essere un po’ d’influenza e gli si diede una pastiglia d’aspirina indicandogli coi gesti di berci sopra una tazza di tè caldo e di mettersi a dormire. Ci ringraziò con molti inchini, ed uscì. Ma poco dopo la parete divisoria s’aperse e un altro servo avanzò dopo tre inchini ad angolo retto, ripetendo come un automa: «Doctor! Doctor!» Anch’egli stava male o desiderava una cura. Aveva visto che sul libro dei passeggeri accanto al nome s’era scritto : Doctor, per non scrivere: Journalist, il che in Giappone produce subito gravi sospetti; e fu molto difficile fargli capire che s’era dottore in legge e non in medicina. Guai se Cagliostro fosse venuto in Giappone!
Gli alberi parlanti
Alla mattina presto, dopo aver dormito su d’un letto di cuscini, ci si svegliò con la prima luce e si usci dalla casa col passo di Ulisse che, timone in ispalla, parte verso la sua nave per navigare il mare al di là delle Colonne d’Ercole.
Le ragazze stavano pettinandosi in una stanza vicina all’atrio e ridevano del nostro bastone da pellegrino. Volevamo arrivare a Yumoto, un piccolo paese addentro ad alti monti, vecchi vulcani spenti da secoli.
La strada fuori del villaggio, costeggiando il lago e il monte, serpeggiava tra meravigliosi alberi di quercia. A volte per non abbattere un albero la strada si divideva in due lasciandolo vivere nel mezzo. Sui tronchi v’erano spesso incisi dei caratteri;
la bellezza stava non solo nella natura, ma nella solitudine immensa che permetteva d’intendere il canto degli uccelli sui rami vicini per nulla spauriti dal nostro passo, o il fruscio del bambù ceduo mosso dal vento.
Lasciato il lago si prese a salire sul fianco del monte Nantai, alto e piramidale, e nero sulla cima per vecchia lava eruttata.
Qualche donna scendeva dalla montagna curva sotto la gerla, ma per lunghi tratti si camminò completamente soli. Quindi si scese in una grande pianura paludosa che un tempo era stata luogo di battaglia tra samurai di due principi avversari. La strada la tagliava diritta; rasentò un gruppo di capanne, dove tra i grandi tronchi d’un albero stava una specie di Budda fatto con una grossa radice con certi nodi corrispondenti agli occhi e alla bocca. I pini lontano riescivano tratteggiati nelle fronde come con minuti colpi di pennello sullo sfondo giallo dei canneti arsi. S’incontrò un uomo a cavallo, prima si fece vigilante ed attento, poi sorrise e allontanandosi continuò a salutare con la mano.
Si riprese a salire tra boschi ancora invernali. Una cascata scendeva per un lungo tratto spumando lanosa; nel punto dove precipitava c’era un piccolo ponte e di qui si poteva vedere il Nantai nereggiante, tutto il cammino percorso attraverso la pianura e dall’altra parte alte cime di monti a semicerchio con lunghi filoni di neve. Un fitto di canneti celava come un paravento l’origine dell’acqua, ma fatti pochi passi, dietro apparve un piccolo lago freddo e profondo con brevi promontori coperti di pini e il vento increspava le acque deserte.
Il paese senza voce
La strada si faceva sublime tra roccie, tra vecchi alberi morti e altri verdeggianti e nell’ombra biancheggiavano strati di neve. Nel silenzio il volo alto d’un corvo dal richiamo come di voce umana e il frusciare delle foglie.
Si sentiva di comunicare direttamente con la natura, liberi dal fastidio della lingua diversa come per gli uomini.
L’aria si faceva di tanto in tanto venata di ventate tepide e d’uno strano odore di zolfo. Anche sulle roccie si vedevano chiazze gialle di zolfo.
Terminato il bosco si scoperse il fondo della conca tra le alte montagne, con le case di Yumoto presso al lago dove un barcaiolo si staccava dalla riva. Il paese pareva deserto, mancava assolutamente di voci, le case erano aperte; s’entrò in una che aveva l’aria d’essere un albergo e seduti sulla soglia ci si diede a chiamare battendo le mani. Dopo un bel pezzo da dietro ad una tenda si mostrò il sorriso secco d’una vecchia con tutti i denti dorati. La stanchezza richiedeva un bagno.
V’era di fatti nel paese un centro di sorgenti solforose e tra una casa e l’altra, che erano tutti alberghi, stavano delle baracche con vasche di legno piene d’acqua solforosa fumante. Il sole era già sparito dietro alle cime dei monti; nella stanza al piano di sopra ci si tolse il vestito europeo e s’indossò il-Kimono. La vecchia riponeva con cura ogni cosa. S’andava avanti a spiegarci a forza di gesti.
Poi si discese per il bagno e fu grande sorpresa trovare nella baracca due rubiconde ragazze una col sapone in mano e l’altra con la spugna. Le maniche del kimono rimboccate lasciavano vedere due braccia poderose. L’acqua era caldissima, esse ridevano. Da certe fessure spirava un’aria fredda e seccante; si fece segno di chiudere, non capivano; infine si disse loro d’andarsene, perchè si stava per togliersi il kimono, ma non parvero preoccuparsene. Appena spogliatici esse, si fecero vicine e presero ad insaponare lo schiena e a grattare. Non era la grazia coraggiosa di Nausica cita raggiava nel loro volto, ma una indifferenza di smalto.
L’acqua era ostile e l’aria minacciosa; una specie di furore ci prese: non era possibile immergersi nè fermare il vento.
Allora urlando in italiano di chiudere le piccole finestre e di buttare acqua fredda nella vasca ci si rivolse verso di loro, una queste forse credendoci invasi dal dio dell’amore, dato uno strillo fuggirono sbizzarrendo nei piccoli occhi.
Giovanni Comisso
Pubblicato sul Corriere della Sera il 4 luglio 1930