Kioto, maggio
Le donne di Kioto passano per le più belle di tutto il Giappone. Suprema ambizione della donna giapponese è di avere una pelle bianchissima, e non potendola avere, profondamente si incipria. Ma a Kioto asseriscono che a mezzo di semplici abluzioni nell’acqua del fiume Kamo, che dolcemente attraversa la città, possano ottenere una splendida bianchezza, cosi come le stoffe immerse in lavaggio. Le ciminiere delle fabbriche, gli innumerevoli treni rapidissimi, la radio che alberga fin nelle più umili botteghe, i tranvai sibilanti come proiettili nella notte, ci avevano fatto disperare l’incontro con la locale grazia femminile, tanto decantata. Ma invece quasi al di là d’un muro di cemento, che è l’organizzazione moderna di questo paese, esiste tuttavia magica e sorprendente.
Alla ricerca della bellezza
Bisogna andare al teatro delle danze per scoprirla. Nell’atrio tocca togliersi le scarpe, quindi attraverso a corridoi, tra leggere pareti di legno, rotte da finestre che danno su giardini, si viene introdotti in una sala d’attesa dove sono alcune sedie per gli Europei e molti cuscini per terra per i Giapponesi. Attraverso una larga finestra si vedono i ciliegi biancheggiare di fuori, non si ha l’impressione del chiuso, ci si sente come sotto agli alberi. Dopo qualche tempo una parete laterale viene fatta scorrere e gli inservienti in kimono, con gentili inchini, invitano a passare nell’altra stanza. Ci si siede su piccoli sgabelli accanto a bassi deschetti di lacca nera e si attende ancora.
Dopo non molto, una mezza parete davanti a noi scorre, e avanza impassibile una donnina dal kimono color glicine, lungo fino a formarle un breve strascico. Spuntano i piedi calzati di seta bianca e il basso lembo del kimono come rimbocca mostra il rosso della sottoveste. Si siede a una piccola tavola e intanto dietro a lei sono entrate sette bambine: tutte incipriate : tutto un lieve dondolio nelle spalle e nella testa con la capigliatura rialzata e piena di gingilli. Si sente nel silenzio il fruscio dei loro abiti rosa ed azzurri e del passo sulle stuoie; tutta la stanza viene invasa dal profumo di magnolia che emana dalle loro chiome. Ognuna porta un piccolo piatto, vengono a deporlo davanti agli ospiti e, fatto un inclino, se ne vanno. Ma presto rientrano per servire gli altri. Le testoline dondolano come fiori mossi dal vento. Hanno le palpebre sfumate di rose e le labbra coperte di cipria segnate d’un tocco di rosso grande come una goccia dì sangue.
Questa che avviene prima dello spettacolo è la cerimonia del tè. La donnina seduta alla piccola tavola ne è l’officiante, accende una candela, versa dell’acqua in una pentola posta su d’un braciere; accanto, quale sua assistente, le sta seduta una fanciulletta vestita di rosa. Mette il tè nell’acqua, con un lungo mestolino travasa. Tutti i suoi gesti sono lenti e solenni. Le fa da sfondo una finestra rotonda con carta intelaiata fra tanti rettangolini; finestra che rappresenta la luna attraversata orizzontalmente da due liste di legno: due nubi stilizzate. Le bambinette dal volto non alterato da sorriso continuano a servire; nel piattino ci sono dei dolci. Il tè è pronto e vengono ad offrirlo in rudi tazze. E’ un tè verdastro e forte. Assieme ai dolci c’è un fogliettino con una poesia che presso a poco ha questo senso:
«Dimmi il tuo nome se è famoso che io lo adornerò d’una canzone.»
Tutte scompaiono per dove sono venute; gli inservienti ci indicano un’uscita e per altri corridoi s’arriva alla sala dello spettacolo.
V’è una platea e dietro una sopraelevatura. Qui ci s’accomoda su dei cuscini. La folla cresce giù e da vicino; si attende con ansia. Spento le luci da un lato e dall’altro della platea cadono delle tele che scoprono su uno sfondo d’oro, assise su d’un lungo ripiano rosso, due schiere di ragazze: dodici formano il coro e dodici l’orchestra. Subito precedute da un grido gioioso, attaccano il canto e la musica. Hanno chitarre a poche corde, il cosiddetto samisen, tamburelli e pifferi. Ferme nella figura non si scorge che il muoversi ritmico del polso della chitarrista, e ogni tanto cinque piccole mani alzarsi, rimanere sospese e battere i tamburelli tenuti sulla spalla. La musica ravviva, il canto a volte si vela in toni bassi ottenuti a bocca chiusa, è un mugolio voluttuoso.
Non si muovono, qualcosa d’irreale eppure vivente. Sul lungo palcoscenico rettangolare s’alza il sipario. La scena rappresenta un semplice interno di casa giapponese.
La musica precipita e attraverso alla platea, su due passaggi all’altezza delle teste degli spettatori, avanzano le danzatrici una dietro all’altra, lente, solenni, incipriate, rosse e celesti nei kimono. Questi passaggi si chiamano le vie fiorite ed esistono in tutti i teatri giapponesi. Raggruppatesi sulla scena, la danza comincia, ora tenendo tra le mani il ventaglio, ora l’ombrellino, ora un rametto fiorito.
I loro gesti, i loro cenni del capo, ogni posa che assumono, hanno significati narrativi. Ogni danza tra scenari diversi forma un episodio narrato dal canto e interpretato mimicamente dalle danzatrici.
Danze di bambole
Il teatro gode di macchinari modernissimi, e gli scenari susseguenti, rappresentanti paesaggi, pur non essendo orrendi, non è possibile affermare che siano ottimi. C’è molta puerilità, e superficialità. Il pubblico si vede che deve avere un giudizio molto dozzinale. Lo scenario dell’episodio La luna di Nagaoka strappò gli applausi come la più perfetta ricostruzione del vero ed era una perfezione da cartolina illustrata. Piaceva all’estremo vedere la luna salire di momento in momento.
Fu allora che, saziatici dello spettacolo, si volse lo sguardo sulla gente che stava assisa vicino. Accanto, contro lo sfondo verdino della parete, una giovane donna con un kimono viola scuro variato da disegni bizzarri, bianchissima nel suo volto senza cipria, guardava con la meraviglia dei bambini appena destati, ed era pettinata come le nostre signore prima della guerra.
Quello che riesce apprezzabile in queste danze è il contrasto tra l’aspetto quasi di grandi bambole di porcellana che hanno queste ragazze e la grazia animata che a poco a poco le prende.
Le testoline dondolano sul collo, le piccole mani fuori dalle lunghe maniche accennano o descrivono interiori moti dell’anima.
I piedi calzati di seta battono con forza inattesa sul pavimento e la musica e il canto dalle lunghe nicchie dorate le accompagnano. Sempre continuando la danza se ne vanno attraverso le vie fiorite per dove sono venute. Uscendo dal teatro sembrava d’aver vissuto veramente momenti insperati. Aveva preso a piovere sui ciliegi ed era tutto un aprirsi di grandi ombrelli di carta cerata che davano sui volti una luce graziosissima. Per sottrarci alla pioggia s’entrò in una casa cinta da un muro rosso, dove altra gente entrava come fosse un pubblico locale.
Ichiri-Kiga, locale di lusso
Era un restaurant con gheishe. Un antico ritrovo di artisti e di cortigiane: si chiama Ichiri-Kiga. Grandi inchini dei servi sulla soglia; poi aiutano a sostituire le scarpe con babbucce. Una donnina avanza sorridente e, fatto un inchino, ci fa cenno con le mani di passare avanti.
Vi sono dappertutto stanzette separate. Ella ci parla con tale dolcezza ospitale che un po’ ricorda l’insuperabile garbo delle parigine. Non si capisce cosa dica, ma certo devono essere dei complimenti tanto umile è la cadenza della voce. Al di là delle leggere pareti si sentono schiamazzi e tocchi di samisen. La stanza che ci è stata assegnata non ha mobilia alcuna. Una sola parete ò fissa con una finestra a forma di ventaglio, le altre scorrono come portiere, mettendo la stanza in comunicazione con altre attigue. In un angolo c’è un breve scompartimento, arredato con una lievissima semplicità rustica — questo è il luogo dove si espone qualche dipinto — e su uno sgabello un vaso con fiori. E’ limitato da uno stipite fatto d’un tronco d’alberello disgrossato appena. Il dipinto appeso rappresenta un gallo ardito e davanti vi è un pino nano su da un vaso di porcellana verde. Simboli di forza e di giovinezza.
La stanza è illuminata da luce elettrica blanda, ed è tutta pavimentata di stuoie. Senza che ci si sia accorti, un’altra donnina è entrata e ha portato cuscini, un braciere, il necessario per fumare, la pentola d’acqua per il tè e un piccolo desco di lacca. Ella sta umile e silenziosa inginocchiata in disparte, in attesa di ordini.
Ci avevano detto che in Giappone, per farsi capire, bisogna assolutamente sapere l’inglese; invece questo non basta, il più delle volte, e per non morire di fame bisogna invece saper disegnare alla meno peggio.Ci si fa portare il pennellino, l’inchiostro e la carta.
Ogni pietanza viene descritta con disegni che subito accendono un sorriso nel volto incipriato e nella piccola fronte l’idea della cosa richiesta. Riso: si disegna un campicello di riso coi piumetti a fior, d’acqua e lo spaventapasseri. Pollo: un pollo, indicando anatomicamente la parte delpetto. Sakè: si disegna la bottiglietta caratteristica che lo contiene e la tazzina in cui si usa mescere. Ogni disegno ottiene un cenno d’approvazione, e la donnina scompare.
Motocar, gheisha moderna.
Ci s’accomoda sui cuscini, si guarda ogni angolo della stanza; conforta, riposa, lascia respirare serenamente. Si sente la pioggia battere sulle foglie del giardino. Passa qualche tempo, senza noia. E’ l’occhio, stesso che si ricrea da solo sulla novità della cosa. Poi la parete scorre e la stessa donnina appare inginocchiata, passa ivassoi dal corridoio nella stanza, entra e ristende la parete. Depone ogni cosa sul desco; muta, precisa,senza dare ingombro, quasi si annulla. Assiste alla cena per versare il sakè, per mutare i piatti di lacca. Nel vederci adoperare facilmente le bacchettine per il riso, accenna a gentile compiacenza.
Finita la cena si rimane assorti in un piacere indefinito, pare che nulla sia desiderabile di più. La donnina scompare portando via ogni cosa. Dalle stanze vicine, musica e clamori. La solitudine viene a tormentare. Di fuori piove. La stanza ora esaspera. Si va sul corridoio; canti e musiche dalle altre stanze. Si chiama, la donnina riappare, e allora su d’un foglio si disegnano tre geishe con ventaglio in posizione di danza. Ella sorride e abbassa la sua testa coronata dalla pettinatura rigonfia. Ancora si attende, poi la parete che ci sta di fronte si ritrae e una vecchia donna appare assisa col samisen tra le mani, davanti a un paravento con ciliegi su sfondo d’oro. Fa un breve saluto, poi prende a suonare, e subito da dietro al paravento avanzano tre gheishe che al roco canto della vecchia assumono pose e movenze. Come finiscono s’invitano a bere il sakè; si raccolgono tutte attorno al piccolo desco.
Viste da vicino non sono bellezze, la loro dentatura non è perfetta, ma rimangono piacevoli la grazia dei loro gesti e la finezza degli abiti. Il loro vestito è fatto in modo da dissimulare le forme, quasi si direbbero delle bambine, invece sono formose e compatte. Nella cintura di seta tengono un’infinità di cose minute, i loro bigliettini di visita piccoli come petali di ciliegio, specchietto cipria e rossetto, e carte e cartine oleate e profumate che di continuo si strofinano alle tempie o sul collo. Sanno qualche parola d’inglese. Dei loro nomi, due sono di fiori, ma la terza con spavalderia modernista si chiama addirittura: Motocar.
Hanno il pregio di renderci bambini, attraverso scaltrezze coperte d’ingenuità.
S’avverte difficilmente l’artificio. Tanto questa loro compagnia quanto le danze viste a teatro sono le cose più belle che possa offrire il Giappone, ma già alla seconda volta cade ogni incantesimo.
E si può asserire che la bellezza e la grazia non hanno migliore esempio di fugacità e di inganno.
Giovanni Comisso
Pubblicato sul Corriere della Sera il giorno 11 giugno 1930