Il secondo ritorno. Intervista a Giuliano Gallini

di Ginevra Amadio

Anzitutto. Da dove nasce la sua passione per la riscrittura di storie già date? A ben vedere, sembra quasi che nei suoi romanzi lei scelga di cogliere una mancanza, un frammento di inespresso nella trama di una storia che avrebbe potuto imboccare altre strade e sviluppare un diverso esito. Da lì sceglie di partire, per offrire – come dichiara nella nota finale – «una seconda possibilità» a personaggi che escono, inevitabilmente, dal loro “ruolo” e camminano per i sentieri sino a quel momento inimmaginati. È così?

Nella nota dell’autore scrivo che «L’infinita libreria dell’umanità si arricchisce ogni minuto di libri che sono fatti della materia di libri già scritti, la letteratura cresce sulla letteratura».

Sono prima di tutto un lettore e anche se volessi non potrei non farmi influenzare e ispirare dagli autori che amo e con i quali ho riso,pianto, fantasticato, pensato. Sono stati molto importanti nella mia vita e  farebbero capolino dalle mie pagine anche se li nascondessi: e allora tanto vale rendere esplicito il rapporto che le mie storie hanno con loro. La letteratura, poi, è il territorio dove ogni storia può accadere. Credo nell’infinito, e quindi che tutte le storie siano possibili.

Anche la nostra vita può avere infinite variazioni. Chi non si domanda che cosa sarebbe potuto diventare se non gli fosse capitato questo o quest’altro accidente? Stesse persone possono avere storie diverse, e la stessa storia può essere vissuta da persone diverse.

Purtroppo ciò non vale nella nostra realtà, dove destini discordi non sono compossibili: è infatti possibile un mondo in cui Romolo non abbia fondato Roma, un mondo senza l’Impero Romano, ma non è possibile che nel mondo in cui stiamo vivendo ora Romolo non abbia fondato Roma. Questi due mondi, il mondo che ha avuto l’Impero Romano e il mondo senza l’Impero Romano, non sono compossibili. Sono possibili: ma in altri universi. Solo la letteratura permette che ci siano seconde possibilità per personaggi reali o immaginari, o incontri impossibili con molte conseguenze (come quelli tra Giulia Battisti e Ignazio Silone, o tra Joseph Conrad e Agnese), o amori che si influenzano anche a grande distanza, di spazio o di tempo.

La letteratura guarda e connette onnipotente molti universi, paralleli o continui e circolari – e a volte mi pare che  sia regolata da leggi quantistiche!

A proposito dei personaggi, come ne Il confine di Giulia, anche Il secondo ritorno presenta un’intensa e accurata caratterizzazione dei protagonisti. Come ha scelto di trattare il “suo” Joseph Conrad? Al di là del corpus delle sue opere e della biografia da lei segnalata in nota, ha avuto in mente qualche modello? Anche la moglie Jessie, inoltre, appare una figura in cui si sommano diverse influenze, penso ad esempio all’anima bella pietista e alla signorina Felicita di gozzaniana memoria. Quanto peso hanno avuto le sue letture nel tratteggiare le diverse personalità del libro?

La mia costruzione del personaggio di Joseph Conrad nasce, come dice lei, dalle letture dei suoi romanzi, delle sue note dell’autore, da ciò che hanno detto di lui altri scrittori e, in misura minore, dalle biografie.  Con Conrad ho sempre sentito un legame affettivo molto forte, più che con altri autori importanti  della mia formazione. Mentre lo descrivevo lo vedevo in modo molto vivo, e penso che questa vividezza sia passata sulla pagina.  Ma chissà se era davvero come lo ho immaginato! Per l’atmosfera del tempo e del suo ambiente mi ha aiutato The Master di Colm Toibin ma oltre a questo testo non mi vengono in mente modelli che mi abbiano ispirato nella creazione degli altri personaggi.

Sono tutti scesi sulla pagina spontaneamente, si creavano mentre scrivevo. Senz’altro le letture mi hanno influenzato, ma in modo inconsapevole. Che abbiano potuto farlo l’idea di anima bella di Schiller o la signorina Felicita è una ipotesi molto interessante e per me lusinghiera…

Agnese e Leo, come appare chiaro sin dall’inizio, mettono in scena Il ritorno di Conrad e si spingono a compierlo. In questo senso, nel suo romanzo sembra ravvisabile una duplice idea di letteratura: da un lato la classica idea di “imitazione”, di riproduzione della realtà come è o, verosimilmente, come può presentarsi; dall’altro una concezione che potremmo definire di “apprendistato alla vita”, di realizzazione nel reale di quanto già scritto e immaginato. Cosa ne pensa? È possibile che la storia dei coniugi Hervey abbia assunto, in potenza, un valore talmente universale da poter essere rivissuta, a più di cento anni di distanza, da un’altra coppia?

A volte mi sembra che mondi lontani nel tempo o nello spazio aprano una finestra e riescano a conoscersi, a frequentarsi, e che finiscano per condizionarsi, più o meno piacevolmente. Succede anche con le esperienze della mia vita, e credo che capiti un poco a tutti di viaggiare attraverso strati diversi della propria esistenza. Senz’altro avviene quando sogniamo!

Né Agnese né Leo hanno letto Il ritorno, ma ne sono ugualmente suggestionati e finiscono per somigliare ai coniugi Hervey. Tra loro, a Milano, e Conrad, a Stanford-le-Hope, si è aperta una finestra, e purtroppo, come sappiamo lei e io, si è creata una corrente di venti gelidi. Se Agnese avesse ascoltato le implorazioni di Conrad! Ma, uscendo dalla fantasia mistica, o quantistica, direi che Il ritorno ha un valore universale, e che molte coppie di oggi provano emozioni simili a quelle raccontate da Conrad.Si comportano come loro.

Quando il valore simbolico di una storia è molto alto essa diventa un modello ed esplica con efficacia la sua funzione di “apprendistato alla vita” e la simulazione letteraria di Conrad aiuta senz’altro le lettrici e i lettori di allora e di oggi a capire i propri comportamenti.

Il cedimento alle convenzioni sociali di Alvan è lo stesso dei tanti Leo contemporanei. La superficialità del loro narcisismo è una sottile lastra di ghiaccio. Le ribellioni della moglie di Alvan e di Agnese  falliscono perché non trovano un oltre.

Nel suo testo, una grande attenzione è riservata ai dettagli. Oggetti, abiti, gesti vengono resi attraverso una descrizione corposa, che non risparmia riferimenti alla sfera sensoriale o alla messa in rilievo dei colori, i quali assai spesso hanno la capacità di comunicare da soli l’atmosfera di un dato momento. Lo stesso Conrad, nei suoi racconti, dedica grande spazio all’osservazione del “piccolo”: ha voluto seguire il suo esempio per garantire aderenza al racconto di una parte della sua vita, oppure ha guardato anche altrove?

Quando scrivo ispirandomi a un altro autore accade che la mia scrittura ne prenda l’aura. Mi spiego: non faccio esercizi di stile, non mi piacciono. Mi riferisco a una sorta di “doratura” che deriva da processi inconsapevoli di identificazione: con uno scrittore, una epoca, un ambiente sociale. Niente di più. Il fraseggio conradiano è, peraltro, inimitabile.

Lo descrive così Pietro Citati: «Maestro nell’arte della variazione, Conrad rifrange ogni motivo in motivi analoghi e secondari, lo riprende e lo contraddice: lo intreccia con altri motivi, ora in primo piano ora nello sfondo, formando complicate tessiture verbali. Il cuore delle cose viene aggirato, corteggiato, evitato…Conrad avanza lentamente nella sua dolorosa e faticosa materia: ne segue i meandri e gli andirivieni – le ambiguità, i ritardi, le vie laterali, le strade chiuse, le apparenti menzogne».

Molto più modestamente la mia scrittura tende a enfatizzare il reale e come dice lei a mettere in rilievo alcuni elementi della sfera sensoriale: per evitare il rischio della astrattezza dei molti temi trattati e per rendere più facile la vita al lettore.

Il senso di ogni opera è in buona dose definito dell’intenzione dell’autore e dai significati che i singoli lettori gli attribuiscono, anche a distanza di tempo. Il racconto di Conrad, in questo senso, ne è l’esempio perfetto: non apprezzato in presa diretta perché troppo “ordinario”, ha finito per conquistare negli anni una certa fortuna, dovuta soprattutto alla sensibilità moderna dei nuovi lettori. A lei è capitato, magari nel corso delle presentazioni, di rintracciare negli interventi del pubblico una chiave di lettura altra dei suoi testi, a cui nemmeno lei aveva pensato? Da questi spunti possono poi sorgere nuove idee?

I lettori e i recensori danno spesso chiavi di lettura che io non mi aspetto, a cui non ho pensato. Per esempio durante un incontro tra giovani lettrici e lettori che avevano già letto il romanzo è nata una bella discussione sul perché le due donne, la moglie di Hervey e Agnese, ritornano. Tornano perché dove sono andate non hanno trovato niente? La società fuori da una relazione strutturata, d’amore o di lavoro, è vuota? Ma è vuota per tutti o è vuota  per le donne, cui non viene riconosciuto il diritto a una vera ribellione?

Tante idee vengono ascoltando i lettori. La storia di Agnese e Leo, al di là del suo rapporto con Il ritorno conradiano, voleva esplorare come il narcisismo contemporaneo influisce sulle relazioni d’amore, e forse questo tema è da approfondire meglio. Il favore con cui è stata giudicata la parte ambientata nel 1897, la figura di Conrad e la storia, dal finale ambiguo, di Alice mi ha ispirato un sequel: ma è presto per parlarne.

Dopo Silone e Conrad c’è un altro scrittore a cui le piacerebbe ri-dare voce, oppure ha in animo di attraversare altre strade di quel territorio vasto, e potenzialmente elastico, che è la letteratura?

Il mio prossimo romanzo uscirà a gennaio del 2020 ed è ambientato a Ferrara, la città dove sono nato e dove ho vissuto per quasi cinquanta anni. E’ la storia di una giovane ragazza che si trova ad affrontare una crisi personale sullo sfondo della grave recessione economica degli anni 2008-2010.  Nessuna preoccupazione: Giorgio Bassani non è tra i personaggi del romanzo! Ma come potevo evitarlo, come è possibile descrivere una via di Ferrara senza essere influenzati dal Giardino dei Finzi Contini o da Lida Mantovani?

Poi verrà un romanzo più impegnativo che, come dice lei, attraverserà in modo nuovo quel territorio vasto che è la letteratura. Cerco di non scrivere cose banali, di non cedere alla tentazione di perdere tempo con romanzi algoritmici – romanzi che possono essere scritti anche da un buon software. Quali sono? Sono i romanzi scritti in serie, dignitosi, puliti, ben congegnati e con attenti editing ma che dopo averli letti vengono subito dimenticati, che scivolano via, che lasciano con una sensazione di mancanza. Che cosa manca? L’ispirazione.

Preferisco testi con qualche imperfezione ma dove si sente una forte presa sentimentale e intellettuale sul nostro mondo a testi perfetti, studiati a tavolino, editati più volte ma che al massimo raggiungono l’obiettivo della descrizione iperreale di una generazione, o di un amore, o di uno o due  genitori, o di una nonna bizzarra o di un delitto ma mai si dispongono a offrire una visione che aiuti le lettrici e i lettori a comprendere sé stessi, i propri comportamenti e la realtà che li suggestiona e influenza.

Niente contro questo genere di romanzi, ma i grandi problemi contemporanei che ci troviamo oggi ad affrontare come specie umana – dalla rivoluzione tecnologica alla crisi climatica alle crescenti disuguaglianze sociali – pretenderebbero anche dagli scrittori uno sforzo creativo rinnovato capace di uscire dagli schemi imposti dal mercato, tentando così di vedere il profondo della vita rifiutandosi di restarne solo sulla superficie con rimasticature di generi e memoir sentimentalistici. È un tentativo faticoso e rischioso – il rifiuto di editori e lettori di testi non banali è più probabile – ma il romanzo d’arte, così chiamo il libro che nasce dalla carne, che colpisce allo stomaco ma che raggiunge il cuore e la testa delle lettrici e dei lettori con simboli universali, potrebbe, oltre a rivelare il valore in sé di esistere,aiutare a  migliorare lo stato delle cose presenti.

Giuliano Gallini racconta…

Sono nato a Ferrara e vivo a Venezia. Dopo gli studi in scienze economiche inizio a lavorare, dirigendo il settore marketing e comunicazione, in una piccola azienda di servizi che oggi è una delle maggiori in Italia nel suo settore. Sono sposato e ho una figlia. Nel 2017 Nutrimenti Edizioni pubblica “Il confine di Giulia”, e nel 2018 “Il secondo ritorno.” All’inizio del 2020 uscirà, sempre con Nutrimenti, il terzo romanzo.


“Il secondo ritorno”, recensione di Ginevra Amadio

Realtà e finzione si fondono nell’ultimo romanzo di Giuliano Gallini, il quale sembra aver eletto a propria cifra stilistica il principio dell’intertestualità e del riflesso dell’arte sulla vita quotidiana. La sua opera prima, Il confine di Giulia , poneva al centro la figura tenera e sofferta di una giovane amante di Silone, musa silente donata alla storia attraverso la pratica di una scrittura che si fa immaginazione e recupero discreto di possibilità inespresse, lasciate aperte dal gioco del destino o dalle (non) scelte degli uomini. Il secondo ritorno , in questo senso, si pone come il proseguimento diretto e naturale di una pratica rodata, la messa in atto – ancor più raffinata – di un progetto che parte dalla biblioteca dei libri e approda a quella dell’«umanità», mischiando storie di carta e carne fin quasi a fonderle, affinché possano poi realizzarsi nelle loro impensate potenzialità. Così, nell’impianto di un romanzo a dittico sapientemente costruito, Gallini fa convergere un frammento di vita di Joseph Conrad e le vicende – banali e laceranti – di una coppia milanese sul filo dell’esplosione. Lo fa tessendo il filo rosso del romanzo più anomalo di Conrad, quel Ritorno «moderno e psicologico» di cui egli saggia l’estrema attualità spingendosi a compierne il finale inimmaginato, parabola inquieta del male che alberga nella «natura degli individui». Da un lato, dunque, Gallini fotografa lo scrittore polacco nel 1897, a Stanford-le-Hope, mentre lacerato dai dubbi e oberato dalle spese rilegge e rielabora la sua ultima, atipica fatica. Dall’altro, istituendo un legame apparentemente di superficie, tratteggia lo spirito e le incertezze dell’artista Agnese, sentimentalmente legata – nel 2017 – all’arrivista Leo, architetto di grido ossessionato dall’ottenimento di un «incarico» che si fa metafora del culto dello status , della realizzazione da ostentare. Agnese lavora a un progetto filmico dedicato a J&J – Joseph Conrad e sua moglie Jessie George – e incontra, durante una manifestazione di migranti africani, il cordiale Makola, il cui nome riporta alla mente uno dei protagonisti di Un avamposto del progresso , denuncia del colonialismo militare cui qui fa eco, senza forzatura alcuna, la presa di coscienza di quello economico. Ma oltre questi ponti visibili corre un fiume di rimandi destinato ad esondare, un gioco di specchi costruito dall’autore a cavallo delle epoche, in un crescendo di metafore che, in ossequio al passato di Conrad, afferiscono all’area semantica del mare e preparano alla tempesta finale – una violenta perturbazione dell’orizzonte d’attesa del lettore. La forza dell’opera di Gallini sta proprio nella capacità di portare alle estreme conseguenze i presupposti di una vicenda già data, prevedibile nei suoi sviluppi tracciati e per questo arricchita di urla, ansie e rabbia che rispondono alla cattività dell’era attuale, in cui l’uomo è prigioniero di simboli che investono la vita interiore corrodendola dal di dentro. Ed è forse per tale ragione che la simbologia da egli adottata riflette uno studio che nulla ha di affettato o esibito, ma si inserisce piuttosto in quella tradizione letteraria secondo la quale – per dirla con Sciascia – i fatti della vita necessitano di una certa “oscurità” per rivelarsi quali veramente sono. Così i ballerini in bronzo di Agnese indossano «maschere di furbizia» mentre eseguono gli stessi inutili, spasmodici passi; la luna, spogliata dalle ascendenze romantiche, avvolge di luce fredda un duplice scenario di morte e la protesta dei migranti, nella sua apparente giustapposizione, reca con sé un significato profondo che abbraccia e informa l’intera opera. Ancora schiavi recita infatti uno striscione issato dai manifestanti. E quante schiavitù si insinuano nel consorzio umano sino ad assumere la parvenza di una rassicurante e in-visibile normalità. Sono destini di sottomissione, di cui Gallini tratteggia i contorni tessendo un mosaico transepocale di violenza esplicita o interiorizzata, in cui le diverse soggettività si pongono su un piano di corrispondenza lineare e disarmante. ​In questo senso, allora, la verità e la finzione che alimentano il romanzo si configurano anche come il tentativo di rendere visibile ciò che ai più appare nascosto perché banale e ormai assimilato. Il potere conoscitivo della letteratura, del resto, non presenta limiti, e Il secondo ritorno mostra proprio come le infinite possibilità di essa, per potersi realizzare, non hanno bisogno d’altro che di una miccia che le faccia esplodere – anche a distanza centennale.


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