“Ricordiamoci che la natura sta diventando una autentica ricchezza. Di tale ricchezza le Dolomiti sono una miniera prodigiosa che il mondo sempre più ci invidierà. Ma se la si sfrutta ciecamente, per la smania di pomparne i soldi, un bel giorno non ne resterà una briciola. Sono montagne delicate, basta poco a deturparle, un giorno pagheremo il conto. Un giorno, quando le Dolomiti saranno tutte un autodromo, la loro poesia andrà a farsi benedire”. Così Dino Buzzati scriveva sul Corriere della sera il 5 agosto del 1952 nell’articolo Salvare dalle macchine le Tre Cime di Lavaredo, contribuendo a preservarle da uno scempio irreparabile. Qualche avido sciagurato, con la scusa delle Olimpiadi previste a Cortina nel ’56, aveva infatti proposto di realizzare una strada carrozzabile che collegasse il lago di Misurina al rifugio Locatelli, passando sotto le Tre Cime, usando le stesse ciniche motivazioni con le quali sono stati perpetrati negli anni tanti altri scempi.
Potrebbero bastare queste poche righe per far capire quanto sia attuale la narrativa di Buzzati, per asciuttezza di stile e concretezza di argomenti.
Buzzati è uno dei grandi narratori italiani del Novecento, scriveva per mestiere e per passione. Raccontava storie anche quando dipingeva, racchiudendo nella tela favole grottesche, sogni malinconici, desideri erotici e paure inesplicabili. Il mondo figurativo era parallelo alla scrittura, forse gli consentiva maggiore libertà, minore necessità di seguire delle regole e di farsi capire.
Nelle lettere e nei dipinti amava combinare l’espressività della parola con quella del tratto: fin da ragazzo, quando descriveva scalate ed emozioni nelle lettere al suo grande amico Arturo Brambilla accompagnando le parole con schizzi di figure umane e di montagne.
La sua prima montagna importante era stata una cima delle Dolomiti Bellunesi che vedeva dalla sua casa di San Pellegrino, la Schiara: c’è una foto che lo ritrae a 15 anni sulla vetta, con due amici. Da adulto le dedicò anche uno scritto, L’amico Schiara (1964), dove rievoca gli anni delle arrampicate giovanili.
Negli anni Trenta, lasciata la divisa da sottotenente ed entrato come giornalista al “Corriere della Sera”, Buzzati svolge un lavoro ordinario e monotono. I suoi primi libri sono ambientati tra alte vette, boschi incantati e paesaggi pieni di solitudine: nel 1933 esce Bàrnabo delle montagne, per il quale realizzò anche illustrazioni poi non pubblicate e rimaste inedite, e due anni dopo Il segreto del bosco vecchio. Quest’ultimo è una sorta di favola dove tra i personaggi ci sono non solo un colonnello in pensione, che quel bosco vorrebbe distruggere per denaro, e un ragazzino curioso, ma anche geni degli alberi e gazze guardiane, e persino un vento, di nome Matteo. Il ragazzino, Benvenuto, è anche protagonista di una scalata, simbolica ma descritta come nel resoconto di una ascensione alpinistica: “Raspando sulla gelida rupe, che offriva in verità molte rughe buone per afferrarsi, il ragazzo salì oltre le cime degli alberi, si innalzò rapidamente per la parete. Alla fine si trovò su di un aereo terrazzino con sopra soltanto il cielo. Egli vide sotto di sé il Bosco Vecchio che emanava magiche ombre, vide la luna tramontare e una striscia dorata comparire nel cielo d’oriente. Tutto era straordinariamente tranquillo. Di vivo, nell’intero mondo, così almeno pareva, non c’erano che Benvenuto, diritto sulla cima del Corno, e Matteo, intento a morire”.
La vita in redazione, per molti anni, è simile a quella del tenente Drogo nella fortezza. Trovarsi nel cuore del giornalismo italiano e passare mesi e anni nella routine, vedere tanti colleghi scrivere senza originalità e passione, gli dà un irrequieto e frustrato desiderio di lasciare un segno, prima che sia troppo tardi. Da quest’ansia nasce Il deserto dei tartari, il suo capolavoro, pubblicato nel 1940: dalla paura dello scorrere del tempo, con l’inevitabile fine dei sogni e delle illusioni, dalla consapevolezza di avere in sé grandi possibilità e dalla paura di non riuscire a esprimerle. L’idea di una vita tranquilla e un po’ grigia, piena di occasioni perdute, lo atterriva.
Il libro ha fortuna perché Buzzati riesce a tradurre quell’ansia in una storia ben narrata, coinvolgente, che interpreta paure e illusioni di tanti lettori. Per l’ambientazione del romanzo, si ispira al vasto altipiano roccioso e lunare delle Pale di San Martino, in particolare la zona del rifugio Pedrotti alla Rosetta.
Sino alla fine degli anni Trenta non era passata estate senza qualche salita a vette importanti delle Dolomiti, lo ferma solo, nel 1940, l’incarico di corrispondente del “Corriere della Sera” in Africa e poi, durante la guerra, negli incrociatori che pattugliavano il Mediterraneo. In un articolo per il “Corriere d’informazione” del 1941 scrive: “Tutte le sante notti, da una ventina d’anni a questa parte mi sognavo le montagne”. Dopo l’entrata in guerra non più, e allora si rivolge a loro perché tornino a fargli visita: “Aspettate qualche tempo tranquille, e poi provate di nuovo. Un bel giorno ritroverete via libera, spero. Nei miei sogni, chissà, tornerete a innalzare le vostre muraglie coronate di nubi e di sole”.
Buzzati ama anche dipingerle le montagne, espone per la prima volta le sue opere nel 1958, a Milano, in una personale intitolata ‘Le storie dipinte’. Nell’occasione pubblica una monografia in mille copie con lo stesso titolo. Una delle più note tra le opere esposte è la raffigurazione pittorica del Duomo di Milano come cima dolomitica: non provocazione, ma originale continuità di emozioni tra montagne e città, avvertibile solo se si dispone di sufficienti doti di fantasia e immaginazione. Si ispira in modo evidente alla Cima Canali, una delle più belle delle Dolomiti, con le caratteristiche pareti a canne d’organo.
Nello stesso anno pubblica i Sessanta racconti, tra questi spicca il realismo drammatico di Notte d’inverno a Filadelfia, la storia di un paracadutista americano rimasto appeso senza scampo a una parete delle Pale di San Martino, non lontano da Cima Canali.
Colpisce anche la vis polemica e amara di un racconto brevissimo come “La parete”, nel quale tratteggia la stolida indifferenza di un gruppo di turisti di fronte al protagonista che sta per precipitare nel vuoto.
Le crode dei Marden sotto la luna (1969) è il dipinto che più di ogni altro esprime il suo senso della solitudine, malinconico e inquieto: si vedono rupi affilate e scabre immerse nell’azzurro della luce lunare. Tutte le montagne delle sue opere sono ripide, altissime, incutono un vago timore, si pensi alle vette del Focobon ritratte in uno dei suoi ex voto, I ronfioni, poi raccolti nel libro I miracoli di Val Morel (Garzanti, 1971).
Buzzati non smette mai di disegnare, neppure nei giorni delle scalate ai monti. La guida alpina Gabriele Franceschini, l’amico esperto di vette ma anche di buone letture, che più di ogni altro lo ha accompagnato per le montagne, lo ricordò così: “Al ritorno dalla scalata mi faceva il disegno della vetta che avevamo salito. A corona picchi bellissimi e selvaggi, sfuggenti in cielo, scuri spigoli ben in risalto, profondi canaloni; qua e là qualche masso pencolante, il ghiaione ripidissimo su cui arrancavano due minuscole sagome. Io, curvo sotto il sacco, lui con l’alpenstock smisurato”. Insieme scalarono il Campanile del Focobon, la Torre della Madonna, il Sass Maor, la Cima Zopel, la Torre Pradidali, il Dente del Cimone, e aprirono alcune nuove vie alpinistiche.
A Franceschini subentrerà poi, nelle scalate, un altro amico e alpinista, Rolly Marchi, che con la sua esuberante vitalità lo rallegra e rasserena. In occasione del sessantesimo compleanno di Dino Buzzati, Rolly gli regalò una scalata alla cima della Croda da Lago, che Buzzati aveva salito a diciassette anni, nell’agosto del 1923. Nella foto scattata sulla cima, dopo quell’ultima impresa, si vede un Buzzati felice, come forse solo in montagna riusciva ad essere.
In una delle immagini che allego a questo scritto, Buzzati è ritratto nelle Dolomiti di Brenta. La foto fa parte di alcuni scatti che lo stesso Rolly mi donò anni fa: “Tieni questa busta Giuseppe, aprila quando trovi un momento… niente di importante”. Rimasi stupito e commosso quando, tempo dopo e Rolly ormai scomparso, aprii quella busta.
Il suo ultimo racconto, Ottavio Sebastiàn, vecchia fornace, stampato nel 1985 da Frassinelli, compreso nella raccolta Il reggimento parte all’alba, e nel 2018 in un bellissimo volume Henry Beyle corredato dai disegni di Buzzati, è il racconto del suo ultimo viaggio, da Milano verso la villa di famiglia di San Pellegrino presso Belluno e il cimitero dove era sepolta sua madre, a cercare qualcosa di lei e del passato. Non dimentica le montagne neppure in queste sue pagine: “… poco dopo Brescia ad un tratto ho visto risplendere lontanissime al nord le montagne di vetro, pure, supreme, dove mai più; cari miraggi di quand’ero ragazzino rimaste ad aspettarmi e adesso è tardi, adesso non faccio più in tempo”. Illustrò il racconto con un disegno: lui stesso appoggiato a un bastone, sullo sfondo ancora una volta le sue Dolomiti.
E al medico che lo curava del suo male senza rimedio, Giovanni Angelini, anch’egli alpinista e scrittore, dedicò e donò il suo ultimo dipinto, un ex voto che racchiudeva la villa di famiglia, con una sola finestra ancora illuminata e le montagne bellunesi sullo sfondo, e una scritta, ironica come sempre: ‘Santa Rita per intercessione del professore Giovanni Angelini affronta e sgomina dopo paziente lotta uno spirito maligno di incerta stirpe sceso a insidiare tale Buzzati Dino in quel di San Pellegrino – Belluno, estate 1971’. Chiuse la sua vita con stile, come aveva immaginato e sperato alcuni anni prima scrivendo l’articolo Sciatore d’autunno: “Tutto sta nel saperla fare bene, questa ultima e speriamo lunga, ultima discesa. (…) Dipende dalla saggezza, dalla bontà, dalla rassegnazione, dallo humor, dal buon gusto. Soltanto così ci si può salvare”.
Nel racconto che da il titolo alla raccolta, la metafora del reggimento in partenza verso l’ultima destinazione richiama alla mente il reggimento fantasma che sfila davanti al colonnello Procolo, appoggiato a un abete e tra la neve, ormai morente. E ancora più l’ambientazione militare del Deserto dei tartari.
Nella clinica milanese dove stava finendo i suoi giorni a causa di un male incurabile, si può immaginare che a Buzzati siano tornate in mente le ultime pagine del Deserto dei tartari: quando nel buio della notte sembrano svanire tutte le speranze, il tenente Giovanni Drogo affronta con dignità la fine della sua vita. L’attesa di anni si risolve in pochi attimi di coraggio e di consapevolezza: “Facendosi forza, Giovanni raddrizza un po’ il busto, si assesta con una mano il colletto dell’uniforme, dà ancora uno sguardo fuori della finestra, una brevissima occhiata, per l’ultima sua porzione di stelle. Poi nel buio, benché nessuno lo veda, sorride”.
Dino Buzzati, si spegne a Milano il 28 gennaio del 1972, mentre sulla città imperversa una forte nevicata.
Giuseppe Mendicino
Immagine in evidenza: Dino Buzzati mentre firma il suo libro in una libreria di Milano (foto di Giorgio Lotti – Mondadori Portfolio, Wikimedia Commons)